Un assaggio...

Luca 11, 46

“Egli rispose: guai anche a voi

dottori della legge che caricate

gli uomini di pesi

insopportabili, e quei pesi voi

non li toccate nemmeno con

un dito!”.

Correva l'anno del Signore 1588. Lungo i carruggi del Borgo fortificato, celato tra le pieghe di una valle dell'entroterra ligure, si udivano gli strazianti lamenti delle derelitte. Donne incarcerate tra le spesse mura di pietra di alcune cantine, trasformate per l'occasione in prigioni. L'accusa era grave: Stregoneria. Si vociferava in paese che alcune di esse avessero avuto rapporti sessuali con il demonio. Donne capaci di manipolare gli elementi, di creare e dirigere le tempeste e atto ancora più ignobile eripugnante: donne avvezze a sacrificare i neonati al Signore delle Mosche.

L'anno prima il Consiglio degli Anziani aveva redatto un documento, con cui si richiedeva l'intervento urgente del tribunale Ecclesiastico della Santa Inquisizione. La situazione era però sfuggita di mano. Quando durante una Messa domenicale, la comunità venne incitata alla delazione dall'Inquisitore Vicario di Albenga Gerolamo Del Pozzo, le gelosie e le offese mai perdonate portarono in carcere anche le mogli di alcuni notabili della comunità. Le torture allora non furono più solo riservate alle donne di piacere o alle povere disgraziate, ma a tutte le sospettate. I primi decessi in seguito alle ferite subite durante gli interrogatori, smossero le coscienze degli Anziani, i quali iniziarono a nutrire alcuni dubbi sulla regolarità dei processi. Fu però la morte di Isotta Stella, una sessantenne di nobile famiglia, che li convinse a invocare l'intervento del Governo della Repubblica di Genova. Il Doge incaricò allora il Commissario Paolo Scribani a sovrintendere alla correttezza dei procedimenti. In una sua prima missiva di relazione al Governo Genovese, affermava in maniera inquietante di essere giunto a Triora: “per smorbar di quella diabolica setta questo paese che resta quasi per tal conto tutto desolato”.

L'inviato da Genova quella sera camminava calmo, ammantato nella sua veste scura, ascoltando le grida di dolore e i lamenti delle donne, che sfuggivano attraverso le piccole feritoie delle celle. Il freddo si era fatto pungente per la stagione e il vento, senza preavviso alcuno, aveva deciso di pulsare tra i vicoli. Giocando con le ceste intrecciate di castagno e strappando i teli di juta denudando gli usci. Il cielo intorno al borgo era virato altrettanto rapidamente dal blu che precede il tramonto al plumbeo, promettendo grandine.

“Sua Eccellenza ben arrivato.” Il carceriere ed il boia lo salutarono con deferenza, mentre chinando la testa, Scribani entrava attraversando la piccola porta della segreta.

L'odore pungente di urina e di feci umane gli sferzò le narici disgustandolo:

“La strega ha confessato?” Si informò dal sottoposto.

“No, resiste grazie alla forza datole dal demonio, mio Signore.”

“Uscite lasciatemi solo con lei, non voglio essere disturbato.”

“Ma Sua Eccellenza, senza testimoni qualunque cosa dirà la strega non potrà essere trascritto.”

“Mettereste voi forse in dubbio la mia parola?”

“No, ma dobbiamo rispettare le regole. Gli Anziani non sarebbero d'accordo.”

Scribani lo interruppe d'autorità:

“Basta miserabile. Io sono la Regola!” ed aggiunse:

“Se la strega dovesse parlare, voi giurerete di essere stati presenti e di aver udito con le vostre orecchie.”

Il boia dopo aver annuito uscì senza proferire verbo, mentre l'altro uomo avvicinandosi al Commissario disse sottovoce:

“Lei sa che quello che chiede è spergiuro!”

Il Commissario lo afferrò per un braccio, serrandogli il muscolo sino a provocargli dolore. L'uomo tentò allora di divincolarsi piagnucolando come una donnicciola, ma Scribani, strattonandolo con forza, lo avvicinò a se sussurrandogli quasi a fargli sentire l'umidità della lingua dentro il padiglione auricolare:

“Non vuole che io racconti agli Anziani dei vizi dissoluti nella sua casa di Genova, dove si intrattiene insieme a quei giovani uomini vero?”

All'infame ricatto la resistenza dell'uomo si piegò e il commissario lo spinse via con disgusto:

“Non resisteresti al cavalletto nemmeno il tempo che impiegherebbe il boia a legarti.”

Rimasto solo Scribani si avvicinò alla donna. Franchetta Borelli parente del medico del paese, era stata rasata e vestita solo di un camice bianco, legata stretta con canapi luridi mani e piedi al cavalletto. Le corde tese dello strumento di tortura le mantenevano il corpo in una innaturale tensione, creandole nel contempo profonde lacerazioni ai polsi e alle caviglie. La donna aveva continuato a negare ogni accusa e sorprendendo i suoi aguzzini nei rari momenti di lucidità le sue parole erano rivolti ai familiari e alla gente del borgo. Lo Scribani si avvicinò al cavalletto con un mestolo colmo di acqua. Bevve rumorosamente, lasciando scivolare sul viso e sulle labbra arse e tumefatte della prigioniera alcune gocce, che la richiamarono dal sonno buio e senza sogni in cui si era abbandonata. La donna sbarrò gli occhi e fissando la finestra parlò con voce secca:

“Il vento è freddo. È arrivato troppo presto, le castagne non riusciranno a maturare. Ci sarà un raccolto magro questo Autunno.”

“Stai morendo e ti preoccupi delle castagne. Conosci cosa voglio sapere, sono trascorse diciassette ore e non hai ancora ceduto, perché cotanta caparbietà. Perché ti ostini a difendere il tuo segreto, non voglio che tu soffra oltre. Non comprendi che io voglio salvarti. Guarda come ti sei ridotta, non hai più il controllo di te stessa, sei peggio che le bestie.”

Scribani allentò l'ingranaggio del cavalletto e con un lino umido le deterse il viso, bagnò una pezza pulita appoggiandogliela sulla bocca per permetterle di dissetarsi.

“Non so di cosa stiate parlando. Voi siete il Demonio, se stringessi i denti dal dolore, riuscireste a raccontare di avermi visto ridere dei tormenti.” Rispose la prigioniera in un filo di voce.

“Con questo insulso comportamento mi costringi ancora a farti del male.”

Come prima aveva allentato la tensione, Scribani diede un colpo deciso ma misurato alla ruota. Le corde si tesero stirando le membra della povera donna, sino a sollevarle il corpo di almeno un palmo d'uomo dal piano del cavalletto. Il dolore fu allora insopportabile e il suo ventre, senza più vergogna, non trattenne gli umori. Franchetta gridò, pregò Dio di lasciarla morire, ma il suo carnefice prima che lei perdesse i sensi, liberò la presa dalla ruota, lasciandola ricadere sul duro legno.

“Hai parlato nel sonno, ti hanno sentita. Non celarmi la verità.”

La donna stremata parlò:

“La mia famiglia è stata la depositaria del segreto per oltre due secoli, nessuno mai aveva ceduto. Dio mi è testimone, sa quanto ho sopportato nel suo nome. La chiave che cerchi è il pendaglio che ancora porto al collo. Mi era stata affidata e dovevo solo custodirla, non usarla. E così io ho fatto.”

Le parole per troppo tempo trattenute scapparono via risuonando tra le volte dei soffitti. Raccontò a Scribani dello scrigno nascosto, sotto le pietre del sagrato, davanti alla Chiesa di San Giovanni Battista in corrispondenza del Cerbero. Ricordò di quando lei, unica bimba, non prendeva parte ai giochi della Domenica dopo la Messa, per non rischiare di calpestare il luogo sacro. Luogo in cui era stato sotterrato quello che, nella sua innocenza di infante, pensava fosse il corpo di Gesù. Raccontò e raccontò ancora. Di come, in una notte di alcuni secoli prima della sua nascita, il vero messaggio di Gesù Cristo avesse abbandonato la piazza insieme ad uno straniero. Un viaggio lungo un sentiero nascosto tra le montagne, verso Nord. Gli occhi della prigioniera ora erano chiusi, lacrime di vergogna le rigavano il viso. Scribani comprese che la povera donna non aveva più nulla da raccontargli. Le strappò con forza dal collo la chiave a forma di cuore trafitto da un ancora e uscì dalla segreta.

“Ha ceduto, cosa ha raccontato?”

“Nulla che voi sareste in grado di comprendere. Slegatela, datele da mangiare, da bere e riportatela in cella.”

Con passo lesto si diresse nella piazza della Chiesa. Alla luce della luna trovò la pietra e con un coltello la sollevò. Sotto di essa rinvenne un vuoto, profondo quanto un braccio umano. Sul fondo riuscì ad intravedere un involto scuro, lucido. Il commissario infilò la mano, le sue dita si serrarono intorno ad una massa fredda e viscida, grande quanto il suo palmo. Ritirò lentamente il braccio per non ferirsi. Alla luce della luna ciò che teneva ben saldo, si rivelò essere un rospo, scuro e bitorzoluto.

“Non credo sia tu il segreto che cerco.” Disse osservando negli occhi l'anfibio dalle pupille orizzontali. Appoggiò a terra il goffo anuro, che pigramente si mosse alla ricerca di un nuovo riparo. Mentre Scribani lo osservava allontanarsi, sollevò il piede e con un ghigno beffardo lo calò sul capo dello sfortunato animale, con un gesto rapido, schiacciandolo sotto il tacco di legno della sua calzatura.

“Ora vediamo sopra cosa ti stavi riposando.”

Questa volta utilizzò la lama del coltello per liberare quella che, nel profilo regolare, pareva assomigliare ad una scatola di legno. Quando fu ripulita dalla terra, la sollevò. Passò la mano sulla serratura e vi inserì la strana chiave. Gli ingranaggi immobili da secoli non sembravano assolutamente voler assecondare i movimenti dell'uomo, che con pazienza, quasi fosse per lui un nuovo interrogatorio, persistette senza danneggiarla. Uno suono metallico accompagnato da un piccolo sbuffo di ruggine annunciarono che, anche il fine meccanismo, ideato e costruito da un maestro ferraio di grande perizia, aveva ceduto al volere del Commissario.

Gocce di pioggia avevano iniziato a macchiare il sagrato, Scribani ruotò con gesti avidi il coperchio, ma come gli aveva già preannunciato Franchetta, il papiro non era più al suo posto. Lo scrigno conteneva solamente una piccola pergamena arrotolata, legata con un nastro di seta rosso e sigillata con ceralacca. Il sigillo rappresentava ancora quel simbolo a lui sconosciuto, l'ancora ed il cuore.

Lo ruppe e aprì il fragile documento lentamente. Un fulmine illuminò per un istante la scritta, era latino:

“Verum nunc latens sub pectore montem.” mormorò Scribani insieme al tuono che crebbe ridondando tra i tortuosi vicoli del borgo. Ancora una volta erano arrivati tardi. Raccolse il rospo inerme per una zampa e lo mise nella scatola.

“Tu anche se morto mi sarai ancora utile. Un rospo nascosto davanti alla Chiesa è la prova migliore che potessi

chiedere.”

Ripose la scatola sotto la lastra di pietra dove aveva giaciuto indisturbata per oltre 300 anni. La pioggia era adesso mista a ghiaccio, Scribani si affrettò ad allontanarsi cercando un riparo. La preoccupazione velò i suoi occhi, non aveva ripulito le pietre dalla terra tolta dal nascondiglio. Chicchi di grandine delle dimensioni di un uovo caddero sibilando dal cielo, rompendo i coppi e distruggendo i miseri raccolti risparmiati dalla siccità. Trascorsa mezz'ora il borgo era coperto da una coltre di ghiaccio spessa oltre venti centimetri. Gli elementi, nella loro furia indiscriminata, avevano cancellato dal sagrato della chiesa di San Giovanni Battista, ogni prova della recente opera di un uomo.

Il Tempo ha pero una sua memoria. Ogni azione sospesa nel cerchio dei secoli, trova sempre il suo compimento e quando finalmente ciò accade, il risultato spesso non è il più prevedibile.

Continua.............